Istante propizio, 1855
Gianfranco Franchi
Lankelot, 27 novembre 2007
Patrik Ourednik (Praga, 1957) è un letterato massimalista, caratterizzato da uno stile a un tempo elegante e messianico: noi italiani dobbiamo l’incontro con la sua opera alle benemerite duepunti edizioni di Palermo, che già avevano pubblicato un paio d’anni fa l’inatteso e tagliente Europeana. Breve storia del XX secolo. Ne conservo un ricordo folgorante, per via del respiro della scrittura e dell’intelligenza polemica di questo talentuoso sanguemisto franco-ceko. Che della sua scrittura, in questo Istante propizio, 1855, rivela qui l’essenza:
“Non mi sottraggo alla scrittura; non ho che farmene della letteratura. La scrittura è verità, la letteratura è menzogna. Chi scrive sonda le sue reni e trova le sue parole; chi fa letteratura, le impila. Questo permette di professare impunemente la menzogna, di non reagire. Niente per lo scrittore è più infido della scrittura, e per schivarla si rifugia nella letteratura, moltiplicando gli intrecci e imbrogliandosi nelle sue pieghe e nei suoi merletti. Le parole gli sono indifferenti come i mattoni lo sono per il muratore, i personaggi non sono per lui altro che recipienti vuoti nei quali riversa false passioni e sentimenti idioti.” (p. 12)
Cominciate a prendere confidenza con questi toni e con questo stile, per prepararvi ad Europeana, qualora non abbiate avuto la fortuna di leggerlo. Sappiate che assieme a quel piccolo capolavoro v’attende questo notevole romanzo breve (“esercizio di stile” nella quarta firmata Paolo Nori) d’argomento anarchico e ambientazione ottocentesca: un’opera strutturata in una prima parte di altissimo livello – una lettera dal sapore del manifesto, datata 1902 – e in una seconda meno felice, frammentaria e paradossalmente quasi didascalica: diari dell’avventura di questi coloni europei (italiani, slavi ancora “schiavi” e tedeschi poveri) in viaggio per incarnare utopia, comunità della fratellanza da fondare in Brasile. I diari del 1855 sono la cronaca d’una sconfitta annunciata, per incomprensioni e frustrazioni e invidie e prepotenze: la sconfitta è quella della sperimentazione d’un’esistenza comunitaria al di là delle leggi e delle gerarchie, non quella dell’anarchia. I presupposti del viaggio li ritroviamo chiaramente espressi nella parte prima dell’opera:
“Sì, ero impaziente di trasformare i miei pensieri in azioni, per dar forma a una parola apparsa di recente: il socialismo. Non come lo intendono oggi i comunisti, ma come il riflesso della sua origine – socius, alleato, associato, compagno con cui affrontare lo stesso destino. Anarchia nei rapporti umani, amore come espressione di un fatto sociale, abolizione della gerarchia, negazione di Dio, libertà per ciascuno, destino comune – ecco il socialismo.” (p. 22).
Sia chiaro quindi che Ourednik non fa nessuna confusione tra anarchia e comunismo; piuttosto, nel suo Istante propizio le distanze tra socialismi sognati s’evidenziano senza nessuna acredine, con chiarezza e puntualità; l’io narrante è, d’altra parte, nemico dei rivoluzionari e dei ribelli omicidi: rifiuta i dogmatici e chi “odia per amore dell’umanità” – in questo frangente, il riferimento ai compagni è piuttosto limpido. Da un cittadino ceko non possiamo non attenderci una rivendicazione della giustizia e della verità come questa: le vessazioni comuniste sovietiche non sono state dimenticate e non possono essere perdonate. Non avrebbe senso, nemmeno significato.
Il narratore traccia una rotta. La rotta è una e una soltanto.
“Esiste un solo modo di creare una società, non egualitaria ma fraterna: unirsi a chi condivide le stesse idee e costruire volontariamente un mondo nuovo lontano dal vecchio, un mondo senza passato e senza odio; e allora – forse! – grazie alla sua sola esistenza, al suo pacifismo, alla sua dignità, questo mondo si espanderà lentamente sugli altri.” (p. 14).
Le sue sono “memorie di uno sconosciuto” spedite all’amata, parole scritte da chi è convinto che vita e opera siano una cosa sola: questo il viatico. “La mia opera, per quanto maldestra, imperfetta, caduca, era necessaria; dunque la mia vita non fu vana” (p. 10). Sognava comprensione senza parole, con il solo sguardo: questo il futuro vagheggiato, quello dell’adesione empatica, della fine delle menzogne e degli inganni, delle leggi e degli Stati, dei matrimoni e della proprietà privata: questo il senso della sua vita, fondare un tempo che non vuole incarnarsi ancora – questo il senso del suo memoriale, lasciare tracce del viaggio, dello sbarco e delle fortune di quei coloni.
Cantando del giorno in cui le donne saranno libere, e non condannate a mascolinizzarsi dalla pretesa d’un’assurda e insensata uguaglianza: come in questo magnifico passo:
“No – non diamo l’uguaglianza alle donne, diamo loro la libertà. Il giorno in cui la donna diventerà libera sarà l’alba di una rivoluzione di cui non possiamo affatto valutare le conseguenze. La libertà della donna segna la fine della religione di cui è l’adepta più fervente, nell’asservimento. La libertà della donna segna la fine della società in cui il forte opprime il debole, la fine della prostituzione, fisica o morale, la fine della violenza. La libertà della donna è l’annuncio di una nuova umanità, il primo passo verso la vittoria dell’umano sull’uomo” (pp. 25-26).
Cento pagine mantenendo questo stile e questa intensità avrebbero significato capolavoro assoluto; il genio si concentra sino al termine della prima parte, lasciando un nuovo segno nello spirito e nella memoria dei lettori. Il resto è un divertissement, un esercizio di stile e un’illustrazione forse non più necessaria d’un romanzo che amavamo immaginare di vivere, forse sbagliando.
Ciò non toglie che siamo dalle parti dell’opera d’arte destinata a rimanere nel tempo; perché al di là del tempo, per la libertà e per la giustizia e l’umanità sembra scrivere questo artista, e per loro soltanto. Questo suo stirneriano amore per la libertà è formidabile: la sua iconoclastia e la sua purezza cristallina non potranno non sedurvi.
Istantaneamente.