Patrik Ourednik, di Paolo Melissi

lunedì 1 aprile 2013
di  NLLG

Patrik Ourednik
di Paolo Melissi

Satisfiction, febbraio 2013


Negli anni sessanta e settanta, Praga non deve essere stato il posto giusto per nascere, ancor meno per crescere. La Cecoslovacchia, nata nel 1918 alla fine della prima guerra mondiale, era composta dalle aree più industrializzate del precedente impero austro-ungarico e vantava uno Stato democratico. Fu così fin quando, alla vigilia della seconda guerra mondiale, non divenne un bersaglio di Hitler. Venne frazionata e spartita per gruppi etnici e, alla fine della guerra, lasciata in balia dell’Unione Sovietica che in meno di due anni instaurò la dittatura. Seguì un periodo di grandi restrizioni nel campo dei diritti e delle libertà. È proprio in questi anni che nasce Patrik Ourednik (1957). Appena undicenne vede il fiorire di un sogno, quello dell’ascesa al potere del riformista Alexander Dubček, che nel gennaio del 1968 dà inizio alla fase di normalizzazione del paese denominata Primavera di Praga, un periodo di rifioritura liberale che dura appena sette mesi e termina con l’invasione del Paese da parte delle truppe del Patto di Varsavia e un ritorno dei russi prepotente ed arrogante. È in questo contesto socio culturale che prende forma Patrik Ourednik. Utilizzo la locuzione prendere forma perché la messa in forma è un tema ricorrente nella sua letteratura e nel suo credo intellettuale, ma arriviamoci con calma e cerchiamo prima di capire chi è Ourednik. Oltre a scrivere tomi su tomi, è un redattore di enciclopedie, un linguista e traduttore in ceco di alcuni grandi scrittori. Volutamente mi soffermo su questo punto perché, a mio avviso, chiave per capire chi abbiamo davanti. Patrik Ourednik traduce Alfred Jarry, Queneau e Beckett, maestri dell’assurdo e François Rabelais, uno dei più importanti protagonisti del filone anticlassicista del rinascimento francese. I primi tre fanno della rivoluzione semantica e semiotica la loro bandiera, iniziando filoni di pensiero, associazioni letterarie e generi che hanno alla base l’abbattimento del reale a favore del surreale. Rabelais invece è un umanista che, rifiutando le regole stilistiche e tematiche dei generi alti come la lirica amorosa petrarchesca o l’epica cavalleresca, sposa tutto quello che viene dalla carnalità terrena, dal basso, parlando di bisogni primari, corpo, sesso, alcool attraverso una lirica attenta, ricca e ricercata; una sorta di Caravaggio della penna, insomma. Alla luce di ciò, leggere alcune dichiarazioni di Ourednik è tutt’altro che sorprendente: «Personalmente ho un debole per l’arbitrarietà: è l’arbitrarietà che ci permette di mettere in forma le cose che finora erano state difformi. Mettendo le cose in forma, possiamo informarci l’un l’altro». Arbitrario, quindi soggettivo; soggettivo, quindi personale, non omologabile, anarchico. Inoltre, parlando del “mettere in forma” le cose esprime come funzione primaria del processo “l’informazione”. Per Ourednik, quindi, lo scrivere, il mettere in forma, serve principalmente per informare, come dice in un passo del suo romanzo L’istante propizio, 1855 e a cui dedica un libro intero, Europeana, breve storia del XX secolo, dove si libera definitivamente degli inutili orpelli che secondo lui distinguono uno che scrive da uno che fa letteratura e si cimenta in un moderno surrealismo che mira alla povertà linguistica, a favore di un contenuto dall’altissima concentrazione. Una bomba di centocinquanta pagine che si dovrebbe far studiare a scuola per capire con termini diretti (e non da sussidiario come ha scritto qualche critico di cui non ricordo il nome ma che Ourednik definirebbe benedettino della vanità e dell’untuosità) la storia ardimentosa degli ultimi cento anni. Insomma, che sono innamorata di Patrik si è capito; per fare bene il mio lavoro, ora dovrei fare innamorare un po’ anche a voi di lui o, almeno, spingervi a conoscerlo meglio. Ecco così alcuni estratti dai libri che sono stati tradotti in italiano e pubblicati dalla casa editrice palermitana Duepunti Edizioni.

Se a scuola avessi capito per davvero a che cosa serviva imparare a memoria la biografia di un autore, a quest’ora conoscerei molto meglio gli scrittori che ho studiato. Ci sono temi, scelte linguistiche, stilistiche, che fanno parte di qualcosa molto più grande, che va al di là dell’autore stesso. Conoscere la sua vita e il contesto storico a cui è appartenuto rende tutto più chiaro, allo stesso modo in cui un pezzo di puzzle ha senso se lo si attacca al resto del quadro. Inizio la parte delle citazioni con un libro che trovate gratuitamente in formato pdf sul sito internet di Patrik Ourednik dal titolo Anno ventiquattro, una raccolta di memorie dall’età dell’infanzia fino ai ventiquattro anni, appunto. Uno scrigno di “mi ricordo” che tracciano il quadro della sua vita a Praga.

I/1. Mi ricordo che durante le vacanze del 1969 mio padre rifletteva sulla possibilità di restare in Francia. Mi ricordo che ha chiesto a noi bambini che cosa ne pensavamo e che la sua domanda mi ha fatto arrabbiare. Mi ricordo che mia sorella, di due anni più grande, gli ha risposto: “E perché noi? Sono i russi che se ne devono andare”.

IV/9. Mi ricordo che nel 1969 o nel 1970 io e le mie sorelle copiavamo barzellette a sfondo politico su un quaderno per un’amica di mia sorella, emigrata in Svizzera.

IV/10. Mi ricordo una battuta: Si incontrano due tizi. Uno dice: “Brežnev è in ospedale”. L’altro gli chiede: “Come mai?”. E il primo gli fa: “È inciampato in un martello e gli si è infilata la falce nel culo”.

V/8. Mi ricordo che copiavo delle citazioni dai libri su un block notes A6. Mi ricordo che c’erano annotazioni dal Piccolo principe, dal Faustroll e dal Re Ubu di Jarry, dalla Guerra ebraica di Feuchtwanger, da Stanislav Jerzy Lec, da Mrožek, da Holub, dalla Terra desolata di Eliot, da Alice nel paese delle meraviglie, da Morgenstern.

Europeana, breve storia del XX secolo (2001) arriva, preciso e puntuale, allo scoccare del secolo nuovo a raccontare quello appena finito. Un tascabile di storia del Novecento, senza morale, retorica, giudizio o prese di posizione, ma semplice informazione, laddove le parole prendono forma in una costruzione tanto naturale quanto ingegneristica. Un libro perfetto, come scrivevo, come regalo per un nipote o un figlio al liceo, che vuole capire qualcosa in più ma con facilità. Un libro che si dovrebbe far studiare nelle scuole.

C’era anche chi aspettava il XXI secolo con impazienza e diceva che era un’occasione nuova per l’umanità e che bisognava apprendere dagli errori del passato e creare un uomo nuovo che fosse più conforme alla nuova era. E che se la gente avesse appreso dagli errori del passato non ci sarebbero più state guerre ed epidemie e inondazioni e terremoti e carestie e regimi totalitari perché l’uomo nuovo sarebbe stato dinamico e tollerante e positivo. Del XX secolo si è detto che è stato il più sanguinoso della storia dell’umanità e quelli che aspettavano il XXI secolo con impazienza dicevano che in ogni caso non sarebbe potuto essere peggio mentre altri pensavano che il peggio o comunque qualcosa di simile era ancora di là da venire. Chi leggeva la Bibbia diceva che l’uomo è incorreggibile e che peraltro tutto è scritto nel Libro in anagrammi e permutazioni, chi commetterà un attentato contro chi e in che momento e dove e quando un governo cadrà e chi diventerà presidente in questo o quell’altro paese e che per esempio si può trovare MEZZO MILIONE DI MORTI A VERDUN o ZYKLON B o AIDS o CADUTA DEL COMUNISMO IN RUSSIA con le date e tutti i particolari insomma tutto quello che è accaduto o accadrà ma che non possiamo conoscere questi fatti in anticipo perché non sappiamo che cosa cerchiamo e se lo sapessimo scopriremmo tutto in tempo ma allora le cose non accadrebbero e quindi niente esisterebbe.

Istante propizio, 1855 (2006) è un piccolo capolavoro. Diviso in due parti: un preambolo in stile lettera e un diario di viaggio, dove, con il pretesto dell’anarchia e della creazione di una comunità anarchica, Ourednik ottiene una chance per parlare di utopia, sogno, debolezza umana, meschinità e vanità, dal basso, come il suo maestro Rabelais gli insegnò. Due modelli di genere (lettera e diario) nello stesso libro e due finalità precise, unite dal comune denominatore della denuncia. Di seguito un estratto dal preambolo:

Non intendo per nulla, signora, sottostare ai canoni della letteratura attuale, che dagli autori esigono cretinerie divertenti tratte dalla loro intimità; non intendo neppure sottostare a coloro che si fregiano del titolo di critici letterari, benedettini della vanità e dell’untuosità, che cercano nei libri solo quei passi che permetteranno loro di castrare la verità, soffocare la luce sotto lo spegnimoccolo della cosiddetta psicologia moderna e delle scienze letterarie. Certo, quando si è presi in trappola, si ricorre al compromesso e agli accomodamenti. Non ho più resistenza di altri: addiverrò anch’io a presentare qualche scena che turbò la mia coscienza, come fanno gli scrittori allorché intendono attirare l’attenzione su un punto importante del loro racconto. Per informare, ammantano di forme le loro storie [...] Si tratta di una contraffazione facile e desolante – per quale ragione dovremmo ascoltare con più attenzione un racconto abilmente composto piuttosto che uno maldestro – ma la gente, ahimè, lo esige […] Non mi sottraggo alla scrittura; non ho che farmene della letteratura. La scrittura è verità, la letteratura è menzogna. Chi scrive sonda le sue reni e trova le sue parole; chi fa letteratura, le impila. Questo permette di professare impunemente la menzogna, di non reagire. Niente per lo scrittore è più infido della scrittura, e per schivarla si rifugia nella letteratura, moltiplicando gli intrecci e imbrogliandosi nelle sue pieghe e nei suoi merletti. Le parole gli sono indifferenti come i mattoni lo sono per il muratore, i personaggi non sono per lui altro che recipienti vuoti nei quali riversa false passioni e sentimenti idioti.

Oggi e dopodomani. Discorsi di cinque sopravvissuti (2011). Gli amanti del teatro troveranno questo libro gustosissimo. Qui, il background dell’autore si fa sentire a voce alta, rendendo omaggio al teatro di Beckett e rendendolo attuale e sempiterno con l’intramontabile tema della fine del mondo. Uno ad uno i cinque sopravvissuti alla fine del mondo entrano in una stanza che si fa ogni giorno più piccola. Tutti insieme attendono l’inizio del nuovo anno, scambiandosi la reciproca impazienza di scoprire cosa sarà quello che verrà e progetti per il nuovo mondo. Anche qui, Ourednik rispolvera come un amuleto/mantra il tema a lui caro dell’uomo nuovo, quello che si potrebbe creare a tavolino, capace di costruire una nuova società facendo tesoro degli errori del passato.

Giovanni – (Sorseggia il tè ma non mangia) Che gli è successo?
Signori – A chi?
Giovanni – Al mondo.
Carlo – Il mondo è scomparso.
Giovanni – E alla gente.
Signori – La gente è sparita.
Giovanni – Le sembra normale?
Signori – Difficile a dirsi. (Mangia un biscotto e riflette) A voler essere conseguenti, sì. (Pausa) In fin dei conti, non è escluso che non sia la prima volta. Che tutte le fini del mondo via via predette ci siano state davvero, nel Novecento, nell’Ottocento, nel Seicento, nel Trecento, nell’anno Mille eccetera. Forse ci sono state, ma nessuno se n’è accorto, ecco tutto. E magari nessuno si accorgerà neppure di questa fine del mondo, voglio dire, nessuno a parte noi. Quanto a noi, sarebbe un po’ difficile non accorgersene, dato che siamo gli ultimi esseri viventi su questo pianeta che un tempo fu chiamato Terra. Ma forse tutto ricomincerà senza di noi, altrove, dall’inizio alla fine, e nessuno se ne accorgerà, ancora una volta. Forse addirittura tutto ricomincerà proprio qui, e magari noi ne faremo parte, ma nel frattempo avremo dimenticato di essere stati testimoni della fine del mondo, e ci convinceremo che il mondo è questo, questa stanza, questa tavola, questo letto, queste tre sedie e questa porta che non vuole aprirsi, almeno verso l’esterno. E forse dimenticheremo cosa vuol dire la parola porta, e la parola aprire, cosa vuol dire uscire, essere fuori ed essere dentro. (Pausa) Un mondo nuovo, sgombro del ricordo di quello vecchio. L’amnesia è chiaramente condizione della rinascita.

Ourednik è figlio della storia del suo Paese e della letteratura che ha letto e tradotto; è dotato di una grazia nel tocco e nella sensibilità artistica che riversa sul foglio con una naturalezza surreale. Con la vita ha stabilito un patto di scambio, di dare e avere: quello che vive lo rilancia indietro elaborato e personalizzato, a immagine e somiglianza della sua essenza. Tutto questo, unito alla sua vasta cultura, a una creatività geniale, a una profonda coerenza e a un’ironia mai grottesca, rende Patrik Ouředník, a mio avviso, uno degli esponenti più importanti della letteratura contemporanea mondiale. «Credo profondamente nella banalità delle cose: ma perché la banalità diventi verosimile, bisogna metterla in forma. È questa – la forma – ciò che rende il vero simile. Una banalità che non sia stata messa in forma è a tal punto banale che nessuno ci crede. È banale a tal punto da divenire singolare, quindi mendace. »