La Repubblica (Fabio Gambaro)

domenica 18 marzo 2012
di  NLLG

Rabelais elogio del vino

Fabio Gambaro

La Repubblica, 10 maggio 2009


Che a François Rabelais piacesse il vino, non è certo una novità. Nona caso, nelle mirabolanti pagine di Gargantua e Pantagruele, il grande scrittore francese del Sedicesimo secolo si rivolge sempre ai «bevitori illustrissimi» e «infaticabili», gli unici in grado di comprendere fino in fondo le peripezie dei suoi personaggi, molto spesso alle prese con i piaceri della buona tavola e gli effetti inebrianti «del vin bianco e vermiglio». Da qui il mito di Rabelais apostolo devoto della «Diva Bottiglia». Un mito che ha contribuito a riconoscerlo come l’autore spregiudicato e irriverente di uno sconosciuto Trattato sul buon uso del vino, la cui traduzione in ceco, datata 1662, è stata ritrovata quasi per caso tra gli scaffali della Biblioteca del Museo Nazionale di Praga. L’autore di tale traduzione – un certo Martin Kraus de Krausenthal, funzionario della Cancelleria di Praga e già traduttore di diverse opere dal tedesco (motivo per cui è stata anche avanzata l’ipotesi che egli abbia lavorato a partire da una precedente versione tedesca) – presenta quest’ode epicurea ai piaceri e ai benefici del vino come un’opera «del medico ed eminente studioso Rabelais di Lione», indicazioni che ben corrispondono alla realtà biografica dello scrittore. Purtroppo l’originale francese non è mai stato ritrovato, impedendo così la certezza dell’attribuzione. Tuttavia, oltre all’affermazione del traduttore, le molteplici affinità tematiche e stilistiche con l’opera di Rabelais rafforzano l’ipotesi di tale paternità. Gérard Berréby, che a Parigi dirige Allia, la casa editrice che ha appena pubblicato la versione francese del trattato, sottolinea che, «sebbene non si abbia la certezza materiale che il testo sia stato scritto dall’autore di Gargantua e Pantagruele, un importante fascio di indizi permette di indicarlo come l’autore più probabile». In attesa delle eventuali reazioni di critici e specialisti, l’affascinante inedito – il cui titolo completo è Trattato sul buon uso del vino, che deve essere abbondante & continuo, per alleviare l’anima & il corpo & contro tutte le malattie degli organi esterni & interni, composto a uso & profitto dei fratelli della corporazione dei nasi scintillanti dal maestro Alcofribas, coppiere supremo del grande Pantagruele – viene proposto in italiano da una piccola casa editrice di Palermo, : duepunti edizioni, in un volume che comprende anche un’altra opera rabelaisiana, I sogni bislacchi di Pantagruele, nonché uno studio sullo scrittore di Marcel Schwob. «Bere il vino è, accanto al parlare smodato e alla preghiera ardente, l’attività che distingue l’uomo dagli altri essere viventi che vivono sulla terra, i volatili, i mammiferi e i rettili, ai quali Dio non ha donato l’anima umana». È con queste parole che s’apre il trattato, scritto «per il profitto generale della corporazione dei bevitori pantagrueliani», ai quali l’autore ricorda l’importanza capitale del vino, le cui molteplici qualità contribuiscono a curare le più svariate malattie del corpo e dello spirito. Per lo scrittore francese, una bevuta mattutina garantisce «per tutto il giorno quell’andatura di corpo solida e decisa che il saggio Epistemone chiama papale, perché è per sua stessa essenza infallibile». Al contrario, «coloro che bevono acqua si trascineranno tutto il dì senza alcun diletto». Al nettare degli dei però «non si può far torto con altre cose», dato che «c’è da temere il peggio se al vino le mischiamo». L’autore, che pensa innanzitutto all’acqua e alle donne, spiega infatti che «i prevosti più accurati delle corporazioni dei nasi scintillanti non inseguono mai il matrimonio, visto che, come dicono i discepoli più scaltri, il vino giova alle donne se gli uomini lo bevono». Ad ostacolare «un’impeccabile vita da bevitore» contribuiscono anche «l’incauto affaticarsi, il tribolare, il faticare e il correre di qua e di là», giacché, con l’unica eccezione della viticoltura, «la maggior parte dei lavori è estremamente pericolosa». Come già in Gargantua e Pantagruele, Rabelais mescola conoscenze dotte e cultura popolare, il paradosso e l’iperbole, la provocazione e lo sberleffo, ottenendo effetti di grande comicità che trasformano l’uso e l’abuso del vino in una pratica virtuosa in grado di conservare «la vita in salute e freschezza di spirito». Così, nella conclusione del trattato, egli invita gli «indagatori di fiaschi» e i «sollevatori di boccali» a non bere «mai da soli», esortandoli a preferire sempre e comunque i vini migliori. E ancora una volta riafferma la necessità di evitare assolutamente l’acqua, che «è tra tutti i liquidi il peggiore», anche perché, «gli uomini che bevono acqua hanno sempre qualcosa da nascondere e trattengono dentro di sé cose di cui vergognarsi». Per i curatori della versione italiana del Trattato sul buon uso del vino, «Rabelais è sempre nuovo. È un classico che resiste ad ogni accademia, amato, riletto, saccheggiato, emulato, contraffatto e riscritto da generazioni, i suoi sono libri per l’isola deserta, per l’isola che non c’è». È con un brindisi ideale che invitano a leggere e gustare queste pagine ricche di fantasia debordante e invenzioni spiazzanti. Senza dimenticare – ricorda Giuseppe Schifani di :duepunti edizioni – che «l’opera di Rabelais fa parte dei fondamenti dell’identità europea e, come ci ha insegnato Bachtin, rappresenta la cultura che esce dalle università, diventando popolare, travolgendo i generi, creando cultura con l’anticultura». Una cultura che, coniugando felicemente rovesciamento carnevalesco ed esuberanza espressiva, è alla portata di tutti i palati.