Ourednik, parole in una casa dopo la fine del mondo
Paolo Morelli
Il Manifesto, 23. 11. 2011
L’aspetto elegante della scrittura di Patrik Ourednik sta, io credo, nel nascondere in libri di piccole dimensioni la grande abilità nell’intrufolarsi in nervi troppo esposti e per questo banalizzati. Proprio mentre ci viene imposto il diktat di libri di grande spessore perché suggeriscano un peso autorevole e idee importanti, mentre non sono altro che il prolungamento del percorso televisivo verso rassegnazione ed ebetudine, lui se ne esce con libretti di formato risibile, a partire da quel beffardo capolavoro di rilettura storica del XX secolo che è Europeana. Stavolta si cimenta con una pièce in quattro atti e un epilogo – Oggi e dopodomani, discorsi di cinque sopravvissuti – e in scena c’è la fine del mondo addirittura. O meglio, in scena manca solo la fine del mondo, per il semplice fatto che è già avvenuta.
Siamo in un tempo fermo o traballante di stampo beckettiano, quasi, che però comincia come una barzelletta: c’erano quattro italiani e un francese che trovano rifugio in una casa non meglio situata, un’enclave forse, dove si arriva per una strada che si perde nella nebbia. Nella quotidianità di ognuno di loro, di colpo la gente è sparita e con essa le cose ad una ad una. Non si tratta di un maligno incantesimo, piuttosto di una necessità che appare fatale: il mondo è finito o meglio sparito «perché non aveva nessuna ragione di continuare» e loro cinque sono, forse, gli «ultimi testimoni degli ultimi istanti del pianeta» anche incredibilmente, visto che, per esempio «i cinesi avevano 22 volte più possibilità».
Dunque nessuna comodità di credere in un crash, in una Apocalisse ominosa o in qualcosa «come la fine di un film in tv», il mondo è finito per sparizione, e da un momento all’altro. Nel rifugio, l’atmosfera è faceta senza dubbio, niente patemi d’animo particolari, perché verosimilmente si fa fatica a credere di essere gli ultimi rimasti a chiudere la porta, anzi la porta gli si è chiusa dietro. Ci troviamo insomma in un terreno paludoso e fertile insieme per metter su un teatrino di grandi temi toccati con fare distratto.
Difatti, con la sua lingua svagata e dinamica lo scrittore ceco ne approfitta per mettere il dito nella piaga o nella trappola per topi. In una situazione così che c’è di meglio che perder tempo intorno alle aporie, e prima di tutte: se ormai viviamo senza mondo, come faremmo ad accorgerci se sparisce? Se funzione di ogni civiltà è quella di fabbricare l’entropia, la caratteristica più adatta a una fine del mondo odierna è che, se non ci si accorge più di nulla perché ci si dovrebbe accorgere della fine del mondo? Possiamo solo presumerla. La fine del mondo famosa, quella che «è stata già annunciata spesso, è già avvenuta, solo che non ce ne siamo accorti», a parte i cinque sopravvissuti che per ora si ritrovano nella posizione scomoda di mantenere una coscienza del mondo intorno a sé, vale a dire quello che è ormai un guasto conclamato.
Nel mondo d’oggi infatti nessuno o quasi s’accorge che «la vita come ha funzionato finora non funziona più», per la prima volta e in maniera clamorosa troppe condizioni percettive sono cambiate e troppo di fretta, sono cambiati parecchi parametri e perfino le dimensioni cardine spazio-temporali con l’invasività nel sistema nervoso delle «estensioni» mediali, eppure continuiamo a reagire con una mente di stampo otto-novecentesco, vale a dire totalmente inadeguata.
È come se a un hardware (il mondo) parecchio nuovo applicassimo un software (la nostra mente) parruccone e incipriato. Ci si ritrova spiazzati, a vagare come spiriti disincarnati nella nebbia, in cerca di una de-responsabilizzazione qualsiasi, di un «non pensare e sperare», mentre le nostre esperienze si smaterializzano e il linguaggio le accompagna con l’astrazione, perfino le guerre hanno scaravoltato per ripicchiarsi da missioni di pace addirittura. Alla fine di questo percorso, logico, logicissimo, ma di una logica che non essendo costruita sull’esperienza si perde nell’assurdo, non si potrà non scoprire che il mondo «forse non era altro che una proiezione della coscienza». E pure chi crede di starne fuori dovrà ricredersi, anche gli spettatori non hanno ragione per sentirsi al sicuro, dovranno smettere di illudersi sulla loro libertà al chiuso della scatola cranica, lì nel segreto scomodo magari ma che appare l’unico rimasto, perché anche lì dentro dove ci siamo rifugiati fa parte del mondo, la luce sta calando e la stanza progressivamente si restringe. Anche lì «lo spazio si va assottigliando sempre di più».
Proprio come il mondo, che è stato più o meno lo stesso per migliaia di anni e ora è cambiato per sempre, si è rimpicciolito come si dice in giro con orgoglio, mentre «il mondo intero era più grande. Una volta. Più grande e più interessante». Tanto vale scriverle, queste cose, come cerimonia che sappiamo inutile, perché «se nessuno può venire a sapere, leggendo, che una volta sono esistite, non saranno mai esistite».