Lankelot (Gianfranco Franchi)

lunedì 12 marzo 2012
di  NLLG

Oggi e dopodomani. Discorsi di cinque sopravvissuti

Gianfranco Franchi

Lankelot, Dom, 20/11/2011


Carlo, Andrea e Giovanni stanno chiacchierando, per conto loro, chiusi in una stanza. Non aspettano ospiti. Hanno tre sedie, e sono giusto in tre, e stanno in quella stanza da tre giorni. Ogni tanto qualcuno dorme per terra. C’è un letto soltanto. Intorno a loro – “qui intorno”, dice Carlo – non c’è più niente. Ma qualcuno forse ha bussato. La questione è che non tutti hanno sentito. La questione è che quella, scrive Patrik Ourednik, non è una porta normale.

“Non è una porta normale, piuttosto direi un portone a un solo battente, e, inoltre, di normale qui non c’è proprio nulla” [p. 14].

Non è una porta normale e non è una situazione normale. Il mondo è scomparso, la gente è sparita, la radio non trasmette più niente, là intorno non c’è più niente. Il mondo è finito. La vita rimasta è tutta lì. Quando entra Signori – si chiama proprio così – loro tre neanche se ne accorgono. Entra, si chiude la porta alle spalle, si presenta. E spiega ciò che ha capito: stanno vivendo la più grande avventura escatologica di tutti i tempi.

“Succede che non succede più niente. Il mondo è giunto alla fine. Doveva pur succedere un giorno o l’altro” [p. 19].

Ma trova grottesco che gli ultimi testimoni del mondo siano proprio quattro italiani. Forse è che gli italiani sono proprio capaci di sopravvivere a tutto. Da sempre. Forse è che gli italiani sanno perdere per bene la memoria. Meglio di chiunque altro.

I quattro sono liberi di fare quel che vogliono, ma sono in gabbia. E hanno già cominciato a perdere la memoria, more italiano. Non sanno più che giorno era quando è arrivata la fine del mondo. Riescono, grazie agli appunti scritti da Signori sul suo taccuino, a decidere che quel giorno era capodanno. Dev’essere andata così. Qualche giorno prima si festeggiava la nascita del figlio di Dio. Peccato aver mancato la coincidenza.

Poco più tardi, si presenta qualcuno che parla in una lingua non troppo diversa dalla loro. “Bonjour. Ah! Des gens! Dieu merci. Buongiorno...” – è Jean Marie. Padre di una giovane donna divorziata da un italiano. Ha con sé una sedia pieghevole, è uno che dipinge come gli amici di Monet. Dice che in giro non ha incontrato personne. E la questione adesso diventa non domandarsi se verrà ancora qualcuno, ma domandarsi come si farà ad andarsene via da lì. Tutto è diventato distante sempre cinque minuti. Il tempo s’è addormentato. Il tempo nuovo dovrà parlare una lingua nuova. Ma noi ci fermiamo qua.

La tragicommedia del talentuoso scrittore ceko-francese Patrik Ourednik, è stata appena tradotta e adattata da Andrea Libero Carbone per la Duepunti di Palermo, col titolo Oggi e dopodomani. Discorsi di cinque sopravvissuti. È una seducente baracca minimale, d’un’essenzialità beckettiana; è apocalittica e ironica come un’invenzione buffa di Douglas Adams, senza finire per essere un “Ristorante al termine dell’universo” (ma per ammetterne la possibilità, non ci piove).

È una pièce destinata a trovare spazio nei teatri d’avanguardia italiani: è un atto d’amore nei confronti del nostro antico e stralunato popolo, che finisce per confermarci la sensazione che dobbiamo giocare un ruolo determinante, in questo tempo, pur senza avere la grandezza dei nostri lontanissimi padri, per evitare di strapiombare nel niente. Il niente sembra veramente a un passo.

Ourednik ha scritto, negli scorsi anni, un libro destinato a diventare un piccolo classico, il formidabile e generazionale Europeana. È passato per un buon divertimento anarchico (Istante propizio, 1855), per qualche notevole curatela (su tutte, almeno quella di Tutta una vita di Zabrana) e adesso torna per raccontarci la possibilità d’una fine – che somiglia tanto a un’allucinazione di quel vecchio irlandese che ambientava le sue storie in stanze spoglie e senza finestre, neanche. È meno corrosivo e iconoclasta che in passato. Ma ha sempre tanta classe.