C’era una volta (Vlastimil Harl)

martedì 13 marzo 2012
di  NLLG

C’era una volta

Vlastimil Hárl

Il gioco a ricordare è stato introdotto nella letteratura nel 1970 dall’americano Joe Brainard. La prima edizione del suo testo, intitolato I remember, conteneva 800 “ricordi”, la seconda, pubblicata a cinque anni di distanza, circa il doppio. In rapporto a un’autobiografia tradizionale si trattava di una cosa fino ad allora mai vista: l’arida annotazione di ciò che dell’infanzia e dell’adolescenza aveva conservato la memoria del singolo, senza ordine e senza un grado superiore di rielaborazione artistica, la memoria a uno stato primordiale. I ricordi di Brainard sono in primo luogo personali (gli echi delle vicende sociali sono piuttosto rari) e nella maggior parte dei casi non trasmissibili. L’autore ha trascritto tutto, non ha escluso niente, ha a priori rifiutato qualsiasi gerarchizzazione del materiale e ha trattato allo stesso modo l’“importante”e il “non importante”. Brainard ha mostrato una possibilità, pur senza darle una forma, e il suo tentativo probabilmente non avrebbe assunto il significato di un vero e proprio esperimento letterario se nel 1978 questa formula non fosse stata ripresa dal francese Georges Perec.

Perec ha compreso che era necessario utilizzare al contrario il meccanismo del testo: la maggior parte delle annotazioni devono contenere ricordi condivisibili a livello sociale o almeno a livello generazionale. Perec al tempo stesso ha escluso dal suo testo sistematicamente tutte le cose“ importanti”; i suoi ricordi si limitano a evocare eventi banali e futili. A differenza di Brainard le sue annotazioni sono numerate (da 1 a 480) e sotto l’ultima annotazione indica tra parentesi“ da continuarsi”. Alla fine del libro lascia inoltre al lettore alcune pagine vuote affinché possa continuare nel gioco.

L’approcio di Ouředník si differenzia da Je me souviens di Perec sotto diversi aspetti. In primo luogo l’autore non evita i ricordi “importanti”, anzi al contrario sono proprio i fatti storico-politici che gli permettono di concentrare il testo in uno spazio storico ben delimitato. Rispetto a Perec i ricordi personali sono presenti in proporzione maggiore – con il presupposto però che in una società totalitaria nessun ricordo personale è mai davvero del tutto personale. Tutti i ricordi individuali hanno infatti in genere una validità sociale più ampia. Per questo motivo del resto nel testo di Ouředník spesso si sente anche l’eco di un’esperienza collettiva; ad esempio quando ricorda la lettera d’amore che ha ricevuto in prima media, aggiunge due righe oltre: “Mi ricordo che alcuni anni dopo ho scoperto che Marcela Kinclová era emigrata con i genitori in Italia”. Questo principio funziona anche al contrario: la poesia sui trattori di Pavel Kohout risveglia nello scrittore il ricordo che “più o meno a diciotto anni una volta ho fatto sesso nell’abitacolo di un trattore”, e il simbolo della classe contadina e del cammino vittorioso del comunismo viene così degradato a spazio destinato al rapporto sessuale.

L’autore sceglie quindi una sorta di terza via: il legame razionale tra ciò che è importante e ciò che non lo è, tra personale e sociale – la reciprocità dei due aspetti. Il livello collettivo è inoltre ulterioramente rafforzato dal fatto che Ouředník, a differenza dei suoi predecessori, spesso annota anche la “voce della gente”: “Mi ricordo che si diceva...”

Una modifica essenziale caratterizza in fine anche la struttura formale del testo: l’autore suddivide i suoi ricordi in ventiquattro sezioni – il flusso dei ricordi non è quindi ininterrotto – e in ogni capitolo accorcia il testo di un’annotazione, come se la sua memoria pian piano si indebolisse, o come sei suoi ricordi smettessero di essere degni di essere trascritti perché le cose essenziali sono già avvenute. A differenza di tutte le “generazioni perdute” che condividono un momento storico ben determinato, la generazione di Ouředník, che è giunta alla maturità negli anni Settanta, di fatto non esiste: nella Cecoslovacchia normalizzata ha regnato un’assenza assoluta della temporalità almeno fino alla metà degli anni Ottanta. La riduzione dei ricordi “degni di nota” assume così una nuova dimensione: costringe il lettore a porsi la questione fino a che punto riflettono soltanto la pura capacità biologica di conservare le sensazioni dell’infanzia e della prima adolescenza nella forma più limpida – e fino a che punto il metodo scelto rappresenta invece un commento implicito alla vita nel socialismo reale. Il numero sempre maggiore dei ricordi collettivi a scapito di quelli personali così non deriva necessariamente soltanto dalla necessità di una più rigida selezione nell’ambito di capitoli sempre più brevi, ma illustra anche un fenomeno per il quale la generazione di Ouředník rappresenta un esempio addirittura ideale: e cioè la frustrazione dell’individuo in una società totalitaria. L’autore non esita del resto nemmeno ad appropriarsi di ricordi altrui: dal 1985 vive all’estero e quindi tuttii passaggi che riguardano gli ultimi quattro anni (o almeno quelli che presuppongono una presenza fisica) sono cioè “fittizi”. Nelle ultime tre annotazioni poi torna nuovamente al passato più lontano e così il cerchio sichiude.

Nell’ alluvione di letteratura memorialistica apparsa dopo il 1989 sul mercato editoriale, la falsa prosa autobiografica di Ouředník appare fuori luogo per due aspetti diversi: accanto alla stanchezza generalmente condivisa nei confronti di un certo déjà vu (tanto più fastidioso perché ci riporta a un periodo per noi particolarmente poco dignitoso) il lettore è in certa misura sconcertato anche dall’assenza di giudizio, di interpretazione, di riflessione – e così indirettamente anche della dimensione tragica o almeno drammatica dell’epoca descritta. Il filtro della memoria si limita a catalogare le annotazioni che l’autore lega secondo altri meccanismi rispetto a quanto richiederebbe la logica dell’analisi politica e sociologica di un’epoca: i cliché, i dettagli, i frammenti di discorsi, i luoghi comuni, gli automatismi e i tic vengono osservati attraverso il prisma del soggetto autoriale e le “esperienze”, benché nella maggior parte dei casi interscambiabili generazionalmente, non rappresentano il collettivo o la vita nel comunismo in quanto tale. Il concetto di gioco a ricordare di Ouředník potrebbe senz’altro essere applicato a un periodo storico più ampio e il meccanismo individuato potrebbe essere utilizzato anche per un confronto intergenerazionale, sociale e politico. D’altro canto uscire dalla cornice di una concreta esperienza avrebbe significato spezzare quell’instabile equilibrio tra il particolare e il generale. Ouředník non giudica, non spiega, non commenta, le sue annotazioni litaniche hanno solo raramente l’aspetto di episodi o hanno un vero e proprio significato. Non c’è nulla da spiegare: l’autore si rivolge – con una lingua quasi incodice – a coloro che hanno vissuto la stessa sensazione, che però oggi, a distanza di pochi anni, sembra essere quasi irreale. Non certo per caso il ricordo ha luogo soprattutto al livello della lingua (molto più che ad esempio al livello degli oggetti, dei colori e così via); proprio la lingua riflette infatti l’ideologia di una società nel modo più preciso possibile. La lingua è infatti la prima arma di ogni totalitarismo – e contemporaneamente anche in pratica l’unica possibile difesa. Questa “battaglia per la lingua” è nel testo di Ouředník molto evidente.

La sostanza dei ricordi di risiede proprio nel loro carattere effimero; da questo punto di vista potremmo parlare di un’“anamnesi della fugacità”. Quanto ridicolo e degno di oblio ci sembra oggi ciò che ancora non molto tempo fa rappresentava il contenuto della nostra vita, le richieste per i permessi di viaggiare, i buoni Tuzex, la carenza di merci, gli slogan onnipresenti, Štrougal contro Husák! Questo insignificante, difficilmente afferrabile e sfuggente aspetto del tempo e delle cose, che l’autore presenta comel’unica costante del vuoto sociale, rende però più difficile la fuga nei soliti discorsi storici e sociologici. E quindi paradossalmente il nostro destino collettivo viene di nuovo riportato a quello individuale.

Il gioco quindi non consiste soltanto nell’afferrare e formulare il vissuto temporale, ma anche nel trovare il punto d’intersezione tra documento e letteratura, tra verità della società e verità dell’individuo: il testo di Ouředník può essere interpretato sia in un senso che nell’altro. Le istruzioni per l’uso ci vengono fornite dall’autore del resto fin dall’inizio: delle quattro citazioni che compongono il motto iniziale della raccolta almeno tre sono infatti false.

Traduzione dal ceco di Alessandro Catalano.


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