Intervista a Patrik Ourednik
di Carlo Pulsoni & Manuel Piolat Soleymat
Il Corriere dell’Umbria, 8 ottobre 2010
→ Ospite della rassegna perugina “Leggere e scrivere tra più culture: libri e biblioteche dell’Unione Europea” è Patrik Ourednik, eclettico scrittore praghese residente a Parigi dal 1984, anno in cui abbandonò la Cecoslovacchia, all’epoca ancora parte del blocco sovietico. Narratore, poeta, traduttore, linguista, redattore di enciclopedie, professore di scacchi, è anche curatore di due opere appena pubblicate in Italia, Trattato sul buon uso del vino di François Rabelais e Tutta una vita di Jan Zábrana (:duepunti edizioni). Quest’ultima è una scelta di estratti dal diario di Zábrana che offre una testimonianza originale e crudele della “normalizzazione” successiva alla Primavera di Praga (1968). Questo sguardo lucido e disilluso, venato di umorismo, ben si accorda col tono delle opere narrative dello stesso Ourednik, Istante propizio, 1855 (edizione italiana 2007), una struttura a orologeria sull’utopia anarchica, ed Europeana (edizione italiana 2005), 150 pagine che raccontano, come dice il sottotitolo, una breve storia del XX secolo. Una storia senza virgole, dove si incrociano e si accavallano carri armati, l’emancipazione femminile, genocidi, la rappresentazione cinematografica dell’accoppiamento, la psicanalisi, il Millennium Bug… un successo di pubblico e di critica tradotto già in più di 20 lingue. Una decostruzione storica dissacrante e tagliente che porta a interrogarsi sulla verificabilità della realtà tra le diverse opinioni degli storici che fanno iniziare il XX secolo con il 1914 “quando era scoppiata la guerra perché per la prima volta nella storia una guerra coinvolgeva tanti paesi e faceva tanti morti”, di quelli che lo fanno risalire a “prima cioè quando era scoppiata la rivoluzione industriale che aveva sconvolto il mondo tradizionale con l’invenzione delle locomotive e dei battelli a vapore. E altri dicevano ancora che il XX secolo era iniziato quando si era scoperto che l’uomo discende dalla scimmia ma alcuni sostenevano di discenderne meno perché avevano avuto un’evoluzione più rapida”. E se le datazioni traballano di fronte a tali risibili prese di posizione, ancora più caricaturali appaiono le teorie nazionalistiche di linguisti che valutano il processo di civilizzazione in base al congiuntivo imperfetto e al cancan o all’invenzione del romanticismo e alla presenza delle nebbie nelle valli. Un sarcastico collage di cliché - tra francesi mangialumache, inglesi presuntuosi, tedeschi teste di cavolo, slavi privi di una vera lingua – che posti uno accanto all’altro finiscono per neutralizzare ogni sicurezza data per scontata.
Che rapporto ha la sua opera con la verità storica?
Credo che verità storica e finzione siano sinonimi. La Storia non ha un’esistenza autonoma, rimane virtuale fino a che non le si dà una forma narrativa. Non vi è nessuna verità storica al di fuori di quello che dicono gli storici, i commentatori, i testimoni – veri o falsi, oculari e più o meno catartici – e gli scrittori. Europeana non s’interessa alla Storia ma piuttosto alle descrizioni possibili, agli stereotipi, ai luoghi comuni. “Luogo comune” è, tra l’altro, un’espressione particolarmente azzeccata: parla di un luogo dove le persone possono ritrovarsi. Naturalmente, dire che la realtà storica non esiste in sé non vuol dire che non vi siano tempo storico e avvenimenti che agiscono sulle vite individuali, ostaggi della Storia per eccellenza. Ma perché l’avvenimento diventi un “vissuto”, una “realtà”, bisogna che si ricicli in un luogo comune. E chi dice riciclaggio dice finzione, pur ammettendo che la finzione, per esistere, deve riferirsi alla verosimiglianza, a quello che assomiglia al vero… nel momento in cui essa s’inventa. Ed ecco che il gioco è fatto: diveniamo prigionieri di un racconto fittizio (e verosimile) che cerchiamo di condividere con altri. E questo è al tempo stesso liberatorio – nella misura in cui permette la condivisione – e alienante, perché indispensabile; l’assenza di un tale racconto renderebbe la società a-storica, vale a dire superata. Questo vale anche sul piano individuale: la non aderenza a uno dei racconti in vigore è sanzionata con la morte sociale immediata. Tra le due cose – la liberazione e l’alienazione – non vi è, temo, nessun margine. La sola libertà che abbiamo consiste nello sforzarci di essere dei prigionieri consapevoli, degli schiavi illuminati. E non sarebbe poi così male.
Che tono desiderava dare alla sua opera?
“Desiderare” è forse un termine troppo volontario. Mi ero imposto alcune costrizioni formali, ho cercato alcune astuzie affinché la meccanica potesse mettersi in movimento. A partire da là, il testo – una volta creato il quadro – deve agire da solo. È lui che gestisce e assume la sua esistenza, i suoi “desideri”: l’autore è lì solo per controllare ed eventualmente censurare – qua, ragazzo mio, esageri.
Si può dire che Europeana è un testo politico?
È una domanda da porre ai lettori, non all’autore. Il politico, in letteratura, è una questione di ricezione.