Velluto di Praga

martedì 14 febbraio 2012
di  NLLG

VELLUTO DI PRAGA

Il Manifesto, 28.07.2009

di Patrik Ourednik

Velluto di Praga

Aprile 1990: la «censura preventiva», istituita dal regime comunista dopo la sua presa di potere nel 1948, abolita una prima volta nel 1968 e reinstaurata un anno dopo, viene abrogata. Di fatto, non esiste più dal novembre 1989: la «rivoluzione di velluto» ha fatto saltare nel giro di poche settimane l’insieme dei meccanismi che avevano retto fino ad allora il campo mediatico e culturale. Uno sconvolgimento senza precedenti, certo. Ma i fiori di ogni rivoluzione il giorno dopo appassiscono: rapidamente numerose difficoltà si profilano nel paesaggio culturale cecoslovacco, dovute alla difficoltà di adattarsi alla nuova situazione, al peso dell’eredità propriamente detta.

Purghe e censura

Se infatti la fase che va dal Colpo di Praga nel 1948 all’occupazione del paese vent’anni dopo da parte delle truppe del patto di Varsavia appare oggi su un piano culturale come una realtà storica, non è lo stesso per la normalizzazione degli anni ’70 che resta per gli intellettuali cechi e slovacchi, tre anni dopo la rivoluzione di velluto, generatrice di traumi. La normalizzazione alla cecoslovacca fu infatti particolarmente sistematica e portò nel corso degli anni ’70 a un isolamento morale che a sua volta produsse nel pensiero sociale e politico una certa rassegnazione

Già dal 1969 ebbe luogo una prima ondata di epurazioni che riguardavano essenzialmente la capitale. Per un anno circa, si assistette allora a una emigrazione culturale verso le regioni. Non era raro in quel periodo che un drammaturgo, un regista, un critico letterario o uno storico, licenziati dal loro posto a Praga, trovassero un impiego più o meno equivalente in provincia. Testi teatrali di Havel o di Kohout sono spesso rimasti nel repertorio dei teatri di provincia per tutta la stagione 1969-1970 e oltre, mentre le case editrici regionali pubblicavano Vaculik e Kundera e le biblioteche offrivano ai loro clienti opere che erano state ritirate dalla circolazione a Praga.

Il primo ottobre 1970 entrò in vigore il decreto del ministero degli interni che ordinava «misure d’urgenza nei luoghi culturali per garantire la purezza e la trasparenza del lavoro ideologico» provocando un’ondata massiccia di licenziamenti, che in quattro anni toccarono più del 70 % del personale artistico e scientifico, soprattutto nelle case della cultura (85 %) seguite dalle case editrici (82 %).

Essendo le remunerazioni nel settore culturale tradizionalmente basse, i «quadri ideologici» piazzati nei posti vacanti non nascosero il loro disinteresse. Nel solo 1971 la produzione editoriale cadde in modo vertiginoso: in alcuni casi venne raggiunto solo il 20% degli obiettivi abituali. Il potere ricorse allora a un aggiustamento eccezionale dei salari degli amministratori delegati e più tardi a una radicale rivalutazione degli stipendi dei funzionari che si tradusse in aumenti che arrivavano fino al 115 %. Per quanto riguarda la produzione letteraria propriamente detta, 1089 libri furono mandati al macero solo nell’ambito ceco e slovacco. A questi si aggiunsero 398 titoli ritirati dalla circolazione, e 421 autori si ritrovarono all’indice, di cui 153 (fra i quali ventuno classici) per l’insieme della loro opera. Una trentina di scrittori stranieri per un totale di 130 titoli vennero a completare questa lista. (A mo’ di paragone, l’elenco delle opere «indesiderabili» pubblicata all’attenzione delle biblioteche nel 1960 comprendeva 6590 titoli).

Più sottili furono gli interventi praticati nei testi degli autori destinati a essere «rivisti» con la scusa di «anticipare le influenze nocive e le idee sbagliate di alcune opere». Fra i portatori di idee sbagliate, Shakespeare, Lope de Vega, Calderon, Molière, Corneille, Goethe, Schiller, Dostoevskij, Goncarov, Cechov, Whitman, Ibsen, Strindberg, Baudelaire, Flaubert, Verlaine, Apollinaire, Shaw...

In totale circa diecimila interventi diretti della censura ebbero luogo in otto anni, tra rappresentazioni teatrali o musicali vietate, mostre mai realizzate (fra cui quelle dedicate all’arte gotica nella Boemia meridionale e all’arte barocca a Pilsen), manifestazioni culturali abortite, libri vietati o ritirati dalle biblioteche, testi «attualizzati».

La censura non risparmierà neanche l’istituto della protezione dei monumenti storici, accusato di fare propaganda religiosa. Durante questo stesso periodo l’istituto si vedrà vietare per 129 volte il restauro di edifici appartenenti all’architettura sacra. Inoltre numerose domande di ricerche archeologiche, etnografiche o storiche verranno rifiutate, e 65 località dichiarate «siti classificati» saranno definitivamente distrutte nei primi anni della normalizzazione.

Dissidenza e zona grigia

Di fronte a questo attacco gli intellettuali dissidenti, tagliati dalla loro cerchia socioprofessionale, si trovarono in difficoltà. Eppure, a partire dalla seconda metà degli anni ’70, appaiono tentativi di un’azione comune: Charta 77 sarà il primo risultato concreto in questo senso. Ma invece di soffocare la vicenda, il potere in cerca di un nemico ideologico, decide di sfruttarla: viene organizzata una «risposta del popolo ai traditori». Migliaia di intellettuali e artisti (con un reclutamento che riguardò soprattutto gli attori e le persone dello spettacolo, in quanto più noti nella società) firmarono un proclama «antiCharta», denunciando la vigliaccheria, l’arroganza e la malvagità dei traditori. È probabile che questo sia stato il primo errore strategico del potere: malgrado quello che la mobilitazione comportò di penoso, la crociata contro i dissidenti ne rivelò al tempo stesso l’esistenza al grande pubblico. La zona grigia, l’unico e indispensabile legame tra la dissidenza e la maggioranza silenziosa, si allargò progressivamente, i samizdat si infiltrarono più facilmente negli ambienti esterni alla dissidenza. L’emigrazione volontaria o forzata di un certo numero di figure dell’opposizione permise di consolidare i legami fra dissidenza e esilio, la produzione di scritti clandestini si fece più seguita e diversificata: riviste di storia, di sociologia, di critica letteraria o di teatro apparvero a poco a poco. Un centinaio vide così la luce nel periodo 77-89, così come nuove collane: la più antica e regolare fra di loro, la collana Petlice diretta da Ludvik Vaculik, pubblicherà in quattordici anni di vita più di 350 titoli, di cui un buon numero saranno ripresi dalle edizioni in esilio e reintrodotti clandestinamente in Cecoslovacchia.

Bisogna tuttavia operare delle distinzioni: contrariamente ai fenomeni polacchi e ungheresi, il samizdat ceco è restato a lungo allo stadio di semplice manoscritto dattilografato, e ha subito la mancanza - a dispetto dei sistemi di circolazione messi in piedi - di un contatto naturale con i lettori. Quanto agli scrittori emigrati che avrebbero poi pubblicato per le case editrici in esilio, solo quelli che erano stati sistematicamente pubblicati prima del 1968 (Kundera, Skvorecky, Kohout, Kolar...) godevano di un certo interesse da parte dei lettori anonimi. La maggior parte restavano sconosciuti al di fuori di una cerchia di iniziati. Infine, la «terza via» che avrebbe permesso di sfruttare lo spazio fra ufficialità e illegalità non è mai esistita in Cecoslovacchia, con l’unica eccezione della «Jazzová sekce» («Sezione di jazz»), un’associazione culturale legalmente dichiarata, ma dissolta poi per la sua attività editoriale.

Il potere dei senza potere

La fine degli anni ’70 ha anche coinciso con la - molto relativa - espansione del «teatro d’appartamento», complemento logico della produzione editoriale in samizdat. Allo stesso modo si fecero sempre più frequenti i concerti rock underground e diverse esposizioni «selvagge» ebbero luogo a Praga e nei dintorni.

Scritto nel 1978, Il potere dei senza potere di Vaclav Havel riassume le inquietudine dei dissidenti, tentando di formulare le regole della «vita nella verità» in opposizione a quelle della «vita nella menzogna» istituzionalizzate dall’ideologia comunista.

Per definizione, i dissidenti formano una casta in una società monolitica - e dalla casta al ghetto il passo è breve. Non ci sono che due possibilità, conclude in sostanza Havel: o la prostrazione e l’indifferenza prevarranno e la società totalitaria, dotata così delle sue qualità essenziali, raggiungerà le visioni di Orwell; o il bisogno di una rigenerazione morale e della vita nella verità diventerà un fenomeno sufficientemente rivelante da far sorgere tensioni sociali che condurranno alla fine del regime.

Queste tensioni sociali, i dissidenti dovranno attenderle per altri dieci anni. Non si faranno sentire realmente che a partire dal 1988, per accrescersi sensibilmente nel corso dell’anno successivo. Attorno ai due principali gruppi di opposizione - Charta 77 e il Comitato di difesa dei perseguitati - si forma, tra il 1988 e il 1989, una struttura di movimenti civili e di iniziative indipendenti. Per la prima volta da vent’anni, intellettuali e artisti provenienti dall’establishment prendono la parola in difesa dei dissidenti: duemila firme per la petizione che chiedeva la liberazione di Havel, arrestato nel gennaio’89, furono per la nascente opposizione intellettuale una sorta di prova generale. Nato negli ambienti teatrali e cinematografici, il manifesto «Nekolik vet» («Alcune frasi») mobiliterà circa trentasettemila firmatari. In scala minore, un’evoluzione simile ha luogo nelle istituzioni ufficiali degli scrittori e dei pittori, all’Accademia delle arti, e nell’ambiente scientifico. La Chiesa, quasi assente dalla scena politica e sociale dagli anni della guerra, rinasce dalle proprie ceneri: mezzo milione e più di credenti invocano apertamente la libertà di culto e la separazione fra Chiesa e Stato. Una parte della stampa ufficiale, inoltre, comincia a domandare un dialogo con l’opposizione.

Otto giorni dopo l’apertura del Muro di Berlino, gli avvenimenti del 17 novembre fecero da detonatore. Dal giorno dopo, al teatro «Cinoherni klub», si costituiva il Forum civile che, in seguito, condurrà il paese alle elezioni. L’impegno di massa e immediato degli attori al fianco dei dissidenti nel loro braccio di ferro con il potere permise al movimento di contestazione di propagarsi rapidamente per tutto il paese. Questo ruolo attivissimo degli uomini di spettacolo nella rivoluzione di velluto è senza dubbio rivelatore, il bisogno di catarsi era infatti più sentito nel mondo pubblico dello spettacolo che in altri settori culturali, meno sollecitati dalla propaganda comunista.

Primo a essere toccato dall’esplosione sociale fu l’universo dei media e in particolare quello della stampa: decine di nuovi periodici apparvero dal novembre-dicembre del 1989. Tra i più importanti, il quotidiano «Lidové noviny» e il settimanale «Respekt», che erano vecchi samizdat.

Tre anni dopo

Lo stravolgimento più spettacolare è quello dell’editoria: tra il novembre 1989 e il maggio 1990, le case editrici passano da sessanta a trecentosettanta (un anno dopo saranno già millecinquecento) e gli scrittori fino ad allora proscritti invadono letteralmente il mercato. Un fenomeno analogo si produce per gli autori di teatro, musicisti e per i pittori: i frutti proibiti cadono dappertutto e, nel corso di qualche settimana, si assiste a una metamorfosi quasi irreale della scena culturale. La vita associativa, fino a quel momento controllatissima dal potere, conosce una vera e propria esplosione.

Con la scomparsa del piacere del proibito, l’entusiasmo dei primi mesi cala però rapidamente: i lettori sembrano saturi e le sale dei teatri rimangono vuote. L’apertura del mercato fa inoltre alzare i prezzi oltre ogni legittima previsione, e il Ministero della Cultura si dichiara nell’impossibilità di aiutare finanziariamente le istituzioni culturali, fortemente in deficit.

Per tornare al caso dell’editoria, l’aumento dei costi di fabbricazione, accompagnato da un crollo delle vendite, condusse a misure draconiane, il cui risultato paradossalmente non fu molto diverso da quanto era accaduto all’inizio della normalizzazione: Joyce, Bellow, Holan, Keats, Verlaine, Lautréamont, Dostoevskij, Achmatova, Strindberg, Shakespeare e Dante furono i primi sacrificati sull’altare della resa economica. Alle difficoltà legate alla produzione, si aggiunsero i problemi della distribuzione: un deficit di quaranta milioni di dollari, dovuto all’accumulazione dei titoli pubblicati prima del novembre 1989 e oramai invendibili paralizza i circuiti abituali, mentre la privatizzazione del piccolo commercio farà sparire, nel giro di un anno, da ottanta a cento librerie.

Al di là degli aspetti economici, altri ostacoli hanno rallentato lo sviluppo culturale. L’eredità del totalitarismo e gli eccessi del centralismo si sono rivelati «più pesanti del previsto» (Havel nel gennaio del 1991). L’opportunismo mostrato dalla maggioranza degli intellettuali nei due decenni precedenti colpevolizza oggi l’intelligentsia e la nozione di responsabilità collettiva si riaffaccia. È qui, sul piano psicologico, la differenza essenziale con la disposizione d’animo - trionfale - degli intellettuali al tempo della Primavera di Praga.

Se ci si attiene allo spazio culturale, in nessun luogo fuorché nell’Europa dell’est il passaggio dal totalitarismo alla libertà è stato così immediato e brutale. Da nessuna parte questa libertà faceva seguito a una «normalizzazione» tanto minuziosa e curata. Presi alla sprovvista, gli artisti e gli intellettuali cechi e slovacchi hanno tentato di addomesticare una libertà che non si aspettavano più.


Traduzione di A. L. Carbone e Marco Dotti

FR : Tchécoslovaquie, les conditions de la culture