Fine di un’utopia. “Istante propizio, 1855” di Patrik Ourednik
Gaël Pernettaz
Sul Romanzo, 30/08/2018
Il 1855 non è una data memorabile, come il 1492 o il 1789; non ci sono state grandi battaglie, o colpi di stato, rivoluzioni o riforme sociali. Mezza Europa si combatteva nella lontana Crimea, in Italia eravamo in piena seconda guerra d’indipendenza e in Francia da due anni Napoleone III governava nel periodo che è passato alla storia come “il secondo impero”. Per quanto riguarda le arti, il Romanticismo stava consumando gli ultimi residui di energia rimastagli e gli artisti erano alla ricerca di nuove esperienze che avrebbero portato al verismo, naturalismo e simbolismo nella letteratura, impressionismo e postimpressionismo nelle arti figurative. Nel 1855 Nietzsche e Verlaine compivano undici anni, Rimbaud appena uno, due Van Gogh e nasceva Pascoli; solo due anni dopo sarebbero usciti Les Fleurs du mal di Baudelaire e Madame Bovary. Nei salotti europei si ascoltava Wagner e si parlava di progresso, fra il popolo si leggevano romanzi-feuilletton (sono gli anni dei Dumas) e le città cambiavano forma apprestandosi a cogliere la sfida della modernità.
Non ci si illuda. Nulla di tutto questo ritrova il lettore nel romanzo di Patrik Ourednik: Istante propizio, 1855, scritto dallo scrittore ceco nel 2006 e pubblicato in Italia da Exorma nella traduzione di Andrea Carbone. L’attenzione di Ourednik si concentra infatti sul Sudamerica, dove un male assortito gruppo di anarchici, comunisti e libertari provenienti dalle più disparate nazioni del vecchio continente decide di fondare una colonia autosufficiente e isolata dalla società contemporanea, rappresentata come corrotta e innaturale. Ispirandosi alla storia e alle idee del veterinario e anarchico italiano Giovanni Rossi (anticipandone però le vicende: Rossi era nato solo nel 1856), lo scrittore mette in scena la cronistoria della colonia Fraternitas, dalla nascita del progetto sino al suo fallimento (anticipato sin dalle prime pagine; non ci è imputabile dunque l’aver rovinato il finale).
«Il mondo civilizzato era mai stato più vicino di allora alla sua rovina? La civiltà europea! Parigi con le sue cortigiane, Vienna con i suoi delatori zelanti, Londra con il suo Esercito della salvezza fatto di istrioni, Roma con i suoi papalini! Non era forse l’istante propizio per abbandonare quel mondo sopraffatto da tristezza, miseria, ricoperto di ulcere purulenti, livido ed esausto, e per dimostrare che la strada finora intrapresa era soltanto una tra quelle possibili? O forse che un solo mondo è possibile e gli uomini resteranno schiavi per sempre, qualunque sia il loro nome?»
Il libro si apre con una lunga lettera che colui che teorizzò e diede vita alla colonia (di cui non si dirà mai il nome)scrive a una vecchia amata: Julie. In questa egli racconta la sua vita – della sua nascita, della sua attività da pamphlettista e veterinario, della colonia in Brasile – e le sue idee sulla libertà, il trionfo del libero arbitrio e della volontà personale. In pieno stile ottocentesco, con grandi involuzioni e retorici appelli a vuoto colmi di pathos (è prerogativa di Ourednik l’attenzione alla “verità di un’epoca” anche attraverso la mimesi della sua lingua e del suo stile) ci si trova già calati nel clima utopistico ottocentesco. L’argomentare stretto e naif dello studioso apre al mondo dell’ideale, convincendo l’ignaro lettore della bontà delle idee esposte e portandolo quasi a “fare il tifo” per il buon esito dell’esperimento.
Ma i germi del fallimento spuntano col nascere dell’impresa, come mostra la seconda parte del testo, redatta sotto forma di diario (sempre secondando la sensibilità storiografica dello scrittore ceco che crea i suoi romanzi come collage di documenti del passato) tenuto dal bresciano Bruno, un abitante della colonia. In questo diario è raccontata prima l’odissea marittima del gruppo di coloni sulla nave Croce del Sud dal porto di Le Havre sino all’arrivo in Brasile, e poi gli ultimi giorni della colonia stessa. Già dalle prime righe del diario è evidente come saranno le grandi idee, i sommi ideali sino ad allora propugnati in teoria, a soccombere alla prova della pratica. Sin dai primi giorni di navigazione sono i contrasti fra i diversi gruppi nazionali – di italiani, francesi, austriaci, tedeschi e qualche magiaro – e le diverse filosofie politiche – anarchici, comunisti e libertari – a dominare, tanto che per arginare le spinte centrifughe si decide di istituire statuti, commissioni e votazioni, in altre parole ci si affida all’aborrito «parlamentarismo stupido», ci si affida alla via che si cercava di fuggire.
Tradita subito l’anima anarchica la situazione peggiora ulteriormente proprio nel momento in cui tutti i conflitti dovrebbero ricomporsi, ovvero nell’arrivo alla colonia (già costruita e abitata, il gruppo di cui Bruno fa parte non è quello fondatore). Come chiosa brillantemente Bruno (che come tutti i personaggi umili restituisce la realtà alla pagina senza filtri, con la diretta immediatezza dell’esperienza): «Tutti sono scontrosi, litigano di più rispetto a quando eravamo in viaggio perché abbiamo raggiunto la nostra meta.»
Il romanzo di Ourednik è così una chicca preziosa, in un’epoca che della distruzione dell’ideale, così come della “poetica del pessimismo” (si pensi ad esempio al successo della serie TV Black Mirror, o dal fatto che da tre anni a questa parte il romanzo 1984 è sempre stato nella top 10 dei tascabili più venduti) fa il suo cardine. Dal contrasto fra ideale e reale, teoria e pratica nasce il romanzo e nel fatto che alla fine a vincere sull’ideale è la contingenza dei capricci degli uomini, degli egoismi e delle incomprensioni si trova una morale tanto, forse troppo, attuale. Della nostra realtà infatti parla Ourednik quando fa esclamare ai coloni:
«Beh, benvenuti alla colonia libera di Fraternitas. Le quattro curiosità più notevoli della nostra colonia sono la miseria, l’invidia, il sospetto e l’alcolismo. Benvenuti, amici, benvenuti»