Trattato sul buon uso del vino
Ana Ciurans
Lankelot, 09/12/2009
Non stupisce a noi – ma ci procura meraviglia e, per così dire, ci inebria – che nella Biblioteca del Museo Nazionale di Praga si scopra il manoscritto di un Trattato sul buon uso del vino attribuito a François Rabelais nella versione ceca di un certo Martin Carchesius, alias Martin Kraus de Krausenthal ricco e colto funzionario che pubblicò alcune traduzioni nei primi anni del Seicento.
Così presentato questo inedito dai tipi di :due punti nella nota dell’editore, non poteva che suscitare curiosità. Anche se già per conto proprio l’invitante copertina bianca e rubino sulla quale si legge Trattato sul buon uso del vino che deve essere abbondante & continuo per alleviare l’anima & il corpo & contro tutte le malattie degli organi esterni & interni composto a uso & profitto dei fratelli della corporazione dei nasi scintillanti dal maestro Alcofribas coppiere supremo del grande Pantagruele, non lascia indifferenti, amanti del vino e non. Il ritrovamento dell’edizione medioevale in ceco da Volvox Globator che risale al 1995, è l’ultima delle tante attribuzioni di paternità a François Rabelais che ci sono state durante il Novecento. Il Trattato, così come la casa editrice di Palermo lo presenta al pubblico italiano in edizione critica di Patrik Ourednik (Praga 1957, scrittore, traduttore e linguista) è seguito da 120 riproduzioni delle tavole dei Sogni bislacchi di Pantagruele e si chiude con una nota finale su Rabelais di Marcel Schwob. Oltre che in Italia, il Trattato è stato pubblicato quasi in contemporanea in Francia da Allia e in Spagna da Editorial Melusina.
Rabelais (Chinon en Touraine 1494? - Parigi 1553), frate per contingenza, medico per vocazione e umanista per indole, sovverte il monito medievale “Ebrietas plura vitia inducit” con questo Trattato sul nobile psicotropo che i popoli del Mediterraneo producono e consumano sin dall’antichità per la gioia dei palati e dello spirito e che condivide con Gargantua e Pantagruele l’inebriante bouquet della gioia di vivere. Nel Trattato, vero canto anticalvinista alla fisicità dell’uomo, ritroviamo la ricchezza lessicale, i giochi di parole, i termini dialettali mescolati all’uso delle lingue colte e l’ibridamento culturale tra il rinascimento ordosso-ufficiale e il popolare. Moderno quindi sia nel contenuto che nell’uso del linguaggio, l’intento di Rabelais è quello di restituire il senso originario delle parole, la loro etimologia naturale, per veicolare la vitalità e l’esuberanza che lo caratterizzano. Materiale. Corporeo. Satirico ma sempre metafisico, Rabelais si pone oggi più attuale che mai, apologizzando in questi tempi di disintossicazione da workaholic un vero “contre le travail” in passaggi come questo: accanto all’acqua e alle donne rovinano un’impeccabile vita da bevitore ancora l’incauto affannarsi, il tribolare, il faticare, il lavorare e il correre di qua e di là. Se in questi secoli che lo separano da noi molti avessero potuto ripetere, a riassunto delle proprie vite, le parole di Guy Débord: Fra il piccolo numero di cose che mi sono piaciute, e che ho saputo ben fare, bere è senza dubbio quella che ho saputo fare meglio forse il mondo ora sarebbe un luogo migliore.
Purtroppo spesso e volentieri la fiducia nell’uomo non viene ripagata (almeno in un futuro immediato) e l’erede di Socrate e di Erasmo, come tutti i personaggi scomodi, è stato definito a lungo (e riprendo da antologie di letteratura francese) come “homme buffon”, nel solito goffo tentativo di neutralizzare l’energia travolgente che liberano i testi dissidenti che male si aggiustano alle costrizioni. Malgrado lo scorrere del tempo la sua opera ci arriva tutt’oggi come una follata di vento fresco. Come per i bicchieri, una parola tira l’altra, e viene da dire alla salute! dell’umanità, o quanto meno degli uomini che hanno illuminato gli abbondanti passaggi bui della storia.